La Viscerale, dentro il paesaggio abruzzese.

La strada statale 81 Piceno Aprutina (SS 81) nota anche come la Via Viscerale è tra le strade storiche più panoramiche d’Italia.

È un tragitto di poco più di 160 km che taglia in due l’Abruzzo attraversandolo in quella fascia pedemontana meno famosa di quella costiera e montana, ma ugualmente capace di regalare scorci e suggestioni uniche. Ed è proprio nelle viscere dell’Abruzzo che arte, storia e paesaggio si mescolano sapientemente per raccontarci il suo territorio.

Senz’altro l’autostrada è uno strumento utile ma di sicuro non serve a conoscere in maniera approfondita l’ambiente, il territorio, la storia; l’autostrada ignora la città e spesso con i suoi cavalcavia, ignora anche il naturale declivio del paesaggio. La strada invece entra nelle città e anche quando le sfiora solamente, comunque ne coglie la sostanza, invogliando alla sosta per capire, per guardare, per fotografare.

 

 

Da Casoli in direzione nord verso Civitella del Tronto, la Via Viscerale attraversa i territori delle province di Chieti, Pescara e Teramo toccando molti centri minori ricchi di storia e cultura o semplicemente con un indimenticabile panorama, per cui vale la pena una sosta.

Durante tutto il percorso si viene come scortati da due maestose sentinelle appenniniche: la Maiella prima ed il Gran Sasso poi, per finire poi con l’accogliente panorama dei Monti Gemelli dell’ultimo tratto; mentre sin dall’inizio del tragitto, spostando lo sguardo sul lato opposto, si finisce spesso per perdersi nell’infinito azzurro del litorale adriatico.

Monti Gemelli

Un percorso da vivere lentamente e intensamente, passaggi per piccoli centri e comuni più grandi quali: Fara Filiorum Petri, Bucchianico, Chieti, Pianella, Penne, Cermignano, Teramo e con alcune soste tra le tante possibili che legate a particolari curiosità regalano suggestioni nel tempo e nello spazio. Tra queste ci sono:

  • Guardiagrele. È subito dopo la partenza e merita una sosta, non fosse altro che per sentire la forte presenza della Maiella che qui nella “città di pietra” domina sia perché si è al cospetto del massiccio appenninico sia per le costruzioni più antiche in pietra bianca, quanto piuttosto per fare una ricca colazione in centro storico con il tipico dolce a tre punte detto Sise delle Monache, frutto di una tradizione pasticciera datata 1800. Sull’origine del nome del dolce c’è una leggenda che dice come derivi dal pudico contegno di alcune suore, le quali mettevano al centro del petto una sorta di prominenza in modo da rendere meno evidenti i loro seni. Altra ipotesi riporta invece che la tipica forma farebbe riferimento alle tre vette abruzzesi Gran Sasso (2912 mt), Majella (2793 mt) e Velino-Sirente (2487 mt) che poi sono le più alte dell’intero Appennino. Da qui “Tre Monti”, l’altro nome dell’ottimo dolce.

 

Colleggiata di Santa Maria Maggiore
Sise delle Monache

 

  • Cepagatti. Più o meno a metà strada del tragitto, sosta dal carattere suggestivo. Il centro storico con diverse bellezze artistiche e culturali ha un particolare che lo rende unico, alcuni murales che ravvivano i vicoli e le stradine con rappresentazioni artistiche della vita del paese. Ma la curiosità più bizzarra riguarda l’origine del nome Cepagatti. Lasciando da parte le dotte ipotesi di traduzioni latine spesso errate che parlano di ‘villaggio al di qua di Chieti’, ci piace molto la supposizione che attribuisce la provenienza dell’odierno nome di Cepagatti ai Longobardi che chiedevano un balzello, una tassa doganale per entrare nel loro castello senza essere attaccati e pare che, dal grido che provenisse dalle mura, “ci pagate” o dalla risposta “ci ha pagato” piuttosto che dall’interrogativo dialettale “ci pagat?”, derivi dunque il nome. Viene da riflettere su come mai i Longobardi parlassero italiano o addirittura l’odierno dialetto, ma queste sono valutazioni da differire a tavola in uno dei tipici locali della zona assaggiando l’ottimo olio prodotto nella splendida collina pescarese.

 

  • Civitella del Tronto. Poco prima di sforare nel territorio marchigiano, il percorso termina presso la fortezza borbonica di Civitella del Tronto. Antico baluardo di confine che subì numerosi assedi, tra cui quello lunghissimo dei piemontesi di Vittorio Emanuele II che fu preludio dell’unità e a cui la fortezza cedette per ultima solo il 20 marzo del 1861. Qui troviamo anche una stranezza che è altresì un primato: la Ruetta d’Italia, la strada più stretta di tutte che con i suoi 40 cm nacque per scopi militari al fine di rallentare gli accessi di eventuali nemici. Altra curiosità di questo territorio che fu confine tra lo Stato Pontificio a nord e il Regno di Napoli a sud, è data dalla presenza lungo la linea di demarcazione di cippi confinari. Voluminosi e pesanti cilindri che vennero collocati a segnalare il confine e che recano il giglio dei Borbone di Napoli da un lato e lo stemma delle chiavi di San Pietro dall’altro. Questi si resero necessari perché alla fine del 1700 gli abitanti di confine abruzzesi, ancora oggi chiamati scherzosamente ‘regnicoli’ rispetto ai dirimpettai detti ‘papalini’, si trasferirono in blocco e andarono a sistemarsi nello stato papale creando tra gli altri, parecchi problemi sulla riscossione delle tasse.
La Ruetta d’Italia

 

 

Scopri questa strada dagli scorci indimenticabili in automobile oppure in moto ma anche con la bici, per una fruizione più lenta ed efficace. Se si è in gruppo consigliamo un suggestivo giro per i tornanti della S.S. 81 a bordo di un volkswagen bully anni ’70.

Richiedi informazioni e personalizza il tuo viaggio nelle viscere dell’Abruzzo.

 

Celommi e la luce sull’Abruzzo più autentico

Pasquale Celommi, definito il ‘pittore della luce’, è un verista autentico che ha rappresentato con le sue opere definite ‘poesie dipinte’, la società e l’ambiente abruzzese di fine Ottocento.

Nasce nel 1851 da un’umile famiglia a Montepagano: una collina che domina la costa dell’odierna cittadina Roseto degli Abruzzi, l’antica Rosburgo.

I genitori si trasferiscono successivamente proprio a Rosburgo, che in questo periodo inizia a strutturarsi come scalo commerciale dell’abitato medievale di Montepagano.

Le opere che Celommi ci ha lasciato, unitamente a quelle del figlio Raffaello che ne seguì le orme, sono uno splendido spaccato della vita quotidiana che abitano, dove protagonista è sempre la gente abruzzese del mondo contadino e della marineria immortalata nei suoi luoghi naturali.

Le sue opere non possono essere certo definite quadri paesaggistici, però le ‘luminose marine’ dell’Adriatico e gli inconfondibili paesaggi agresti cui fanno sempre da sfondo i contorni dell’Appennino Abruzzese, sono il ritratto inconfondibile della natura rustica tra mare e monti dell’Abruzzo.

 

Tre gli esempi più alti della produzione di Pasquale Celommi troviamo L’operaio politico e La pescivendola, in questi dipinti il pittore si avvicina all’esperienza del verismo sociale: la stanchezza degli occhi dell’anziana pescivendola e la caparbietà con cui il vecchio operaio legge il giornale, danno l’idea di una ricerca o almeno di una voglia di cambiamento ed emancipazione che fu molto forte  in Abruzzo.

 

Elemento ricorrente nelle opere della produzione di Pasquale Celommi è la canestra o paniere o nassa da pesca che veniva realizzata dai canestraicontadini e pastori che nei ritagli di tempo si dedicavano all’antica arte dell’intreccio di vimini, giunchi, rami di castagno o verghe di olivo. Questa pratica ancora oggi è attuale in alcuni centri agricoli e montani dell’Abruzzo.

 

L’opera forse di maggior successo è stata Il Ciabattino, del 1895, dove Pasquale Celommi riesce ad esprimere tutta la sapienza e la serenità dell’artigiano che compie quei gesti ripetuti chissà quante volte, gli stessi gesti che sono nei ricordi infantili di Celommi, figlio di un ciabattino di Montepagano.

 

 

LA SCIABICA DA SPIAGGIA E LA PICCOLA PESCA

La sciabica da spiaggia è una tecnica di pesca praticata dai pescatori delle coste sabbiose del Medio Adriatico con una barca a remi che calava una rete a strascico in acque non profonde e non lontane dalla spiaggia.
Fino ai primi anni del 900′ le reti da sciabica erano realizzate in canapa macerata e lasciate ad asciugare al sole.
Il filo ricavato veniva successivamente cucito dalle donne cui spettava il compito di fabbricare le reti, il compito di ripulirle e ripararle prima di rimetterle in mare invece, era affidato agli anziani.

Questa l’opera Il pescato della sciabica.

In molte marinerie abruzzesi ci sono ancora esempi di piccola pesca da spiaggia,  talvolta incentivate dalle stesse amministrazioni comunali.  Nell’area antistante l’attracco, sono poi le donne che attrezzano la vendita immediata del pescato mentre gli anziani, nel dedicarsi al riparo delle reti, si lasciano andare a ricordi e racconti che se si ha la fortuna di trovarli di buona vena sono un’esperienza da vivere per capire e conoscere meglio un pezzo di Abruzzo.

Chiedi informazioni sulle opere di Celommi e su dove trovare ancora esempi di piccola pesca, ti daremo le giuste indicazioni per un’esperienza davvero cozy.

 

Maja e il risveglio della bella addormentata

La Majella e il Gran Sasso sono le principali catene montuose abruzzesi, separate dalla Val Pescara, dominano il paesaggio con la loro bellezza e maestosità.

La Majella è donna e sacra, montagna madre storicamente abitata da civiltà molto antiche, adagiata e selvaggia, impervia ma generosa; Il Gran Sasso è la montagna d’Abruzzo per eccellenza, con la vetta più alta dell’Appennino, il Corno Grande (2.912 mt), imponente, maschio e virile.

La suggestione di genere sembra essere giustificata dalle fattezze umane dei comprensori e dai tanti miti e leggende che da sempre affascinano gli abruzzesi e gli amanti dell’Abruzzo.

 

LA LEGGENDA

La narrazione sulla montagna madre e sul gigante che dorme è molto commovente e legata alla mitologia che racconta della dea Maja, la più grande e la più bella delle sette sorelle Pleiadi. Le sue stupende trecce bionde, l’armonia dei tratti e le forme della ninfa di certo non passarono inosservate al dio Zeus, figuriamoci. Dio di folgori e saette, incorreggibile fecondatore divino, il nostro senza troppi sentimentalismi fu preso da un improvviso raptus carnale e, appagando il suo desiderio divino, prese la bella Maja in una grotta del monte Cillene in Arcadia. Non ci è dato sapere se la giovane e bella dea abbia poi comunque giovato di un gran momento di piacere, tant’è che da questo fulmineo istante di amore nacque Hermes, il Gigante appunto. Tale enormità, non foss’altro che per celebrare la reputazione di assiduo operatore di convegni amorosi del padre, i cui enormi poteri di tramutarsi in qualsiasi cosa volesse, consentiva allo stesso di consumare rapporti amorosi anche sotto forma di animale (toro, aquila, ecc.).

La bella Maja, racconta la leggenda, dovette in seguito fuggire dalla Frigia per proteggere suo figlio Hermes, il quale feritosi in battaglia, poteva essere salvato solo con un’erba medica che, pensa te, cresceva all’ombra di un Grande Sasso in Italia, in una regione chiamata Abruzzo.

Maja ed Hermes si imbarcano così su di una zattera e attraversano il Mediterraneo fino ad approdare sulle sponde dell’Adriatico, nell’antica città di Ortona. Da qui, tenendo in braccio il gigante ferito, la dea Maja dovette inoltrarsi nell’entroterra abruzzese e scalare il Gran Sasso. Sulla montagna però, trovò troppa neve e le ricerche dell’erba miracolosa furono vane a tal punto che il giovane Hermes incontrò la morte spirando tra le braccia della madre disperata che proprio sul Gran Sasso gli diede sepoltura.

 

La vetta orientale del Corno Grande vista da levante verso ponente riproduce il volto umano di Hermes assopito in un sonno eterno, spettacolo naturale che va sotto il nome di Gigante che dorme. Qui nello scatto di Ugo Di Giammarco.

 

 

Come in un incantevole miracolo della natura quasi a volerne fare dono ai protagonisti di questa leggenda, il ‘gigante di pietra’ osservato da un’angolazione diversa, da sud, si trasforma in una bella e formosa fanciulla dalla lunga chioma distesa sul crinale della montagna: La bella addormentata d’Abruzzo.

 

 

Ci piace pensare che nello scenario grandioso dell’Appennino abruzzese abbiano potuto trovare posto sia la bella Maja che il suo amato figlio, entrati in una simbiosi perfetta dove leggenda e natura si uniscono in un magico e suggestivo gioco che ne suggella l’amore materno.

 

Tornando alla leggenda, dopo la morte del figlio Hermes, la bella dea Maja non ebbe più pace, disperata trovò la morte e venne portata in corteo sulla maestosa montagna di fronte al Gran Sasso che in suo onore prese il nome di Majella.

La cima più alta della Majella, il Monte Amaro (2793 mt) ne simboleggia nel nome il grande dolore e le lacrime versate divennero inoltre rugiada e nutrimento per gli incantevoli pascoli di queste montagne.

Lo sconforto e il lamento doloroso della splendida Maja possono essere ascoltati struggenti e suggestivi, tra gli scrosci delle cascate e il soffiare del vento, in alcuni punti di questi monti come ad esempio il Vallone di Femmina morta.

 

In questo straordinario scatto, Maicol Lanterni ha immortalato in tempi recenti il soffio della bella addormentata che da l’idea di una rassegnata disperazione.

 

 

IL RISVEGLIO

Dopo alcuni secoli di profondo sonno, abbiamo il documento originale del risveglio della bella addormentata.

Ci sono testimonianze dirette però, che le sue prime parole dopo il risveglio non siano state quelle che ascolterete nel video ideato da Luigi D’Agostino, con le musiche di Enrico Melozzi e la voce di Ilaria Cappelluti, bensì un più chiaro ed esplicito “freèchete”, esclamazione tipica dialettale abruzzese che esprime sorpresa e stupore.  Non ci è dato sapere se la bella dormiente abbia avuto questa esclamazione a ricordo del vecchio incontro con Zeus o piuttosto perché colpita dalla straordinaria bellezza dell’Abruzzo.

Vi proponiamo un soggiorno in terra d’Abruzzo per verificare la veridicità del video, potrete osservare dal mare il tramonto sulla bella addormentata o andare alla ricerca in montagna dei segni del dolore di Maja.

L’Arminuta, la Di Pietrantonio e le madri abruzzesi

Donatella Di Pietrantonio è una scrittrice abruzzese o meglio ancora una dentista pediatrica prestata con successo al romanzo, nata ad Arsita, sotto il Monte Camicia, sul versante teramano del Gran Sasso d’Italia.

 L’Arminuta (la ritornata) è la storia, raccontata nel suo libro, di una bambina che a 13 anni scopre di non essere la figlia delle persone che l’hanno cresciuta e che viene restituita alla sua vera famiglia; l’Arminuta passerà così dalla città al paese, dall’agiatezza alla povertà, passando di fatto per due abbandoni.

“Ero l’Arminuta, la ritornata … e non sapevo più a chi appartenere. Invidiavo le compagne di scuola del paese …, per la certezza delle loro madri”.

 

Sullo sfondo la descrizione della maternità o meglio sarebbe dire delle maternità, rapporti duri segnati dalla fatica della vita: amore, abbandono, rinuncia ma anche affidamento, cura, accoglienza.

Nei decenni scorsi in Abruzzo, la ‘donazione’ di bambini fatta dalle famiglie più povere e numerose alle coppie sterili, è stata una consuetudine assai diffusa.

LE FIGURE MATERNE DEL PASSATO

Sono state molte le figure materne attive in Abruzzo fino a metà ‘900.

Una di queste figure materne è la “mammina”, cioè la levatrice, figura di tempi lontani nei quali in Abruzzo i figli nascevano in casa. Un ruolo antico e fondamentale in quel periodo, donne che con le loro mani aiutavano altre donne a partorire diventando madri loro stesse. Le prime a scoprire se il nascituro fosse maschio o femmina, particolare di non secondaria importanza per quei tempi, le prime a darne notizia alla mamma, alla nonna, alle zie. Tale era la gratitudine per queste figure che spesso al neonato veniva dato anche il loro nome.

Altra figura materna del passato è quella della balia alla quale venivano affidati la cura e l’allattamento dei neonati. Con un percorso inverso rispetto a quello iniziale de’ L’Arminuta, erano le classi agiate ad affidare i bambini ad un’altra madre spesso scelta tra i contadini. Questo per evitare che l’allattamento potesse influire negativamente sul loro aspetto fisico o forse semplicemente perché non producevano latte. Quando la balia si occupava dei piccoli senza allattarli veniva chiamata ‘balia asciutta’. Spesso tra i bambini allattati e i figli biologici della balia si stabiliva un rapporto affettivo che li definì fratelli di latte, ancora oggi è possibile trovarne tra i meno giovani.

IL CULTO DELLA MADONNA DEL LATTE IN ABRUZZO

Quando la scomparsa più o meno totale del latte dal seno colpiva le giovani madri dei ceti sociali più poveri, vista l’impossibilità economica di servirsi delle balie, si faceva ricorso a metodi devozionali e fu così che si sviluppò un vero e proprio culto della Vergine Madre.

La devozione Mariana in Abruzzo è sempre stata molto forte e il culto è attribuito quasi unicamente alle donne abruzzesi a causa della continua assenza degli uomini impegnati nelle Transumanze legate alla pastorizia.

La Vergine Maria come ‘Madre’ di tutte le madri’ è stata spesso raffigurata fin dal XIV secolo negli affreschi mentre allatta Gesù Bambino.

In Abruzzo è possibile vedere uno di questi affreschi conservato nella chiesa cinquecentesca di San Francesco a Carapelle Calvisio, borgo in provincia de L’Aquila di 82 anime situato al di sotto della vasta piana di Campo Imperatore.

Altre tradizioni prevedevano il ricorso ad acque miracolose o quantomeno galattofore, legate al culto di Sante e in prossimità di sorgenti montane. È il caso di Sant’Eufemia a Maiella, dove queste acque venivano date anche alle mucche per aumentarne la produzione di latte, decisiva per l’economia dell’intera comunità.

L’ABRUZZO DE’ L’ARMINUTA

L’ambientazione de’ L’Arminuta è quella dell’Abruzzo più arcaico e primitivo dell’entroterra di qualche decennio fa, scorrendo le pagine del libro ne puoi scorgere i colori, annusare gli odori e quasi percepirne i rumori. Una terra aspra ma accogliente, dura ma luminosa.

Ancora oggi vale la pena addentrarsi in uno dei numerosi borghi montani e pedemontani per vivere le sensazioni autentiche che riesce a dare l’incontro con gli anziani che sono rimasti a popolarli. I loro racconti, i loro volti rugosi talvolta burberi ma pieni di dolcezza, le loro mani segnate dalla fatica valgono un viaggio nel borgo che diventa anche un viaggio nel tempo.

         

Puoi prenotare il tuo viaggio nel tempo in Abruzzo scegliendo se fare base sulla costa oppure in montagna, ti daremo consigli e indicazioni per un’esperienza unica nei riti e nelle tradizioni del passato.

Foliage sulla Majella

Due passi in mezzo alla natura alla ricerca di quella infantile dolcezza che si prova ascoltando il rumore dei propri passi sulle foglie scricchiolanti.

In questo periodo della stagione, con un’esplosione di colori, i boschi e i sentieri diventano vere e proprie opere d’arte che regalano una rappresentazione unica e suggestiva.

Lunghi tappeti di foglie che dopo essersi accesi di rosso, passando per varie gradazioni di arancione, si illuminano di giallo per poi finire in sfumature di ocra.

 

MA PERCHÉ IN AUTUNNO LE FOGLIE CADONO DOPO AVER PERSO LA LORO  COLORAZIONE VERDE?

Un fenomeno naturale quello del foliage. Alcune specie di alberi che non sono in grado di sopportare il freddo invernale, sospendono la produzione di clorofilla e così le foglie perdono la loro colorazione a favore di quelle tipiche tinte autunnali simili al colore del vino che da sempre marcano questa stagione.

LA RISERVA DI LAMA BIANCA, TRA FAGGI SECOLARI E LIMPIDE ACQUE

Il faggio più di ogni altro albero è soggetto a queste mutazioni e sulla Majella la secolare faggeta di Lama Bianca è uno dei posti dove la natura è più generosa in ogni stagione e in particolare in quella autunnale.

La Riserva Naturale di Lama Bianca è caratterizzata da fitti boschi e sorgenti d’acqua, il Giro delle Fonti con i suoi sentieri ne fanno un posto adatto anche a bambini e persone non vedenti ma anche punto di partenza di ascese per escursionisti più esperti.

 

I CINQUE SENSI DELL’AUTUNNO A LAMA BIANCA

Una passeggiata autunnale sui percorsi di Lama Bianca è un’esperienza da vivere in pieno con tutte le sensazioni e le suggestioni che lascia per il tramite dei nostri cinque sensi, compagni di viaggio sempre presenti. Una camminata di dispersione e riappropriazione di sé stessi.

  • VISTA

La faggeta offre scenari che appagano la vista. Una ‘cattedrale gotica fatta di legno e foglie’ che stupisce e meraviglia sotto lo sguardo rassicurante della Montagna Madre.

  • TATTO

Con le mani tocchiamo le imponenti radici dei faggi secolari e stabiliamo un contatto che va oltre il tempo, ma con le mani possiamo anche toccare le gelide acque delle fonti e subirne il duro impatto.

  • UDITO

Ascoltare il bosco è una delle esperienze sensoriali più forti, i rumori del foliage con lo scricchiolare delle foglie sotto gli scarponi è un felice rimando ai giochi ed alle sensazioni della fanciullezza.

  • OLFATTO

L’odore e il forte profumo del sottobosco autunnale fatto di foglie e muschi inumiditi è qualcosa che ti entra dentro e in assoluto è l’esperienza sensoriale più persistente quella che più ci ricorderà il posto.

  • GUSTO

Beh, per quello che è il senso che più ti fa conoscere un luogo, bisogna fare poca strada e raggiungiamo il paese di Sant’Eufemia a Maiella per gustare gli ottimi prodotti caseari di uno dei caseifici della zona.

Lo spettacolo del foliage è tra le esperienze più belle da fare in questa stagione in Abruzzo. Per trascorrere qualche giorno in questo magico posto consigliamo DOVE DORMIRE ospitiamo volentieri viaggiatori, turisti e cercatori di esperienze cozy dando loro consigli e indicazioni.